Copie e pirateria: non parliamo di noi. Oppure si?

La pirateria è da sempre, almeno quella riferita dall’arrivo dei primi computer casalinghi fino alle prime console su cd, un argomento capace di dividere gli appassionati di informatica in due grandi schieramenti: quelli a favore ritenendo che abbia sostenuto l’evoluzione tecnologica altrimenti riservata a pochi, e quelli contrari in quanto certi che abbia affossato all’epoca un’intera industria.

Su questo argomento i “classici” commercianti come Newel – negli anni Ottanta e fino all’entrata in vigore della legge che estendeva anche sul software il diritto d’autore – sono stati sempre accusati di essere i colpevoli principali. Su questo aspetto si potrebbe scrivere un libro anche se due parole, interlocutorie, alla vigilia di Pasqua quando tutti dovremmo essere più buoni, possiamo anche dirle prendendo spunto dall’oggetto che abbiamo messo come immagine di copertina.

Certamente la pirateria informatica è un danno, come la pirateria di qualsiasi tipo, media e settore. Non ci sono dubbi. Ma perché è nata ed è così esplosa in quegli anni? Bisogna tornare a quell’epoca, gli anni Ottanta in Italia, con l’intendo di affrontare il problema con mente lucida e mente libera da pregiudizi.

Innanzitutto la pirateria non nasce certo con i videogame: in quegli anni la copia delle cassette musicali era considerata la normalità e ancor prima, negli anni Cinquanta, la pirateria dei dischi raggiunse negli USA vette importanti (supportata anche da verdetti discutibili). In Italia, nei negozi era possibile acquistare componenti fissi per lo stereo a singola e doppia piastra, appositamente realizzati per registrare le canzoni dalla radio, duplicare le cassette per amici e parenti e realizzare bellissime compilation da ascoltare con il nostro Walkmann in vacanza, in cameretta o sui mezzi pubblici quando ci recavamo a scuola con quelle improbabili cuffie tutte sgangherate. Ma quelle avevamo.

Tornando al mondo dei videogame, è proprio questa normalità che porta il pubblico a duplicare le cassette prima, i floppy disc dopo fino ai più recenti cd-rom.

Mi spiego meglio. Come per la musica (si racconta che la colonna sonora del film Grease girasse in copia ancora prima dell’uscita del film nelle sale cinematografiche) sul mercato alcuni soggetti avevano imparato che sui videogiochi – in quanto novità – si poteva lucrare. Ricordo come fosse ieri i capannelli di ragazzi fuori dai negozi (quale posto migliore per mercanteggiare) che offrivano a prezzi ribassati le varie copie conservate in sacchetti di plastica anonimi. Era normale.

A questo dobbiamo aggiungere la tecnologia sia hardware sia software disponibile all’epoca per copiare i vari supporti, ovviamente di facile accesso per tutti. Li vendevano tutti: registratori a doppia piastra prima, software di copia per C64 e Amiga poco dopo. Ricordo quando arrivai in Newel: il mio primo lavoro fu proprio gestire i software e scrivere le recensioni sul nostro catalogo. Ma i giochi, sfatiamo un mito, non venivano copiati dall’originale ma si trovavano facilmente in giro anche quando l’originale non era disponibile dal distributore ufficiale nazionale. Spesso arrivavano dall’estero. Potevano mai i negozianti, in mancanza di una norma a riguardo, lasciare il mercato del software in mano a personaggi che mercanteggiavano fuori dalla porta d’entrata o ancora alle edicole? Facile dirlo adesso quando si dovevano anche gestire magazzini pieni di merce invendibile. Ricordo ai tempi della PS1 quando, per ogni console, i negozianti erano obbligati ad acquistare in bundle – pagandoli – giochi veramente brutti che nessuno ovviamente voleva. Da li la chiusura della maggior parte dei negozi a vantaggio della GDO.

Altro aspetto da considerare è forse da ricercare sulle scelte di alcuni produttori di hardware: hanno forse puntato su un mercato “libero” per vendere più macchine? E’ un dubbio legittimo ma i “colpevoli” incominciano ad aumentare. Ovviamente il successo dell’hardware era proporzionale al parco software disponibile ed era ragionevole impensabile che un ragazzo dell’epoca potesse comprare tutti i giochi in originale. Avendo assistito alla vittoria della prima Playstation rispetto alle concorrenti a cartucce il sospetto cresce.

Ultima considerazione riguarda la produzione di software: il “commerciante” era e rimane tale anche se ha investito, in quegli anni, in un settore nuovo, innovativo e per certi versi ancora senza un vero pubblico. Ha contribuito ad avvicinare, e di questo noi della Newel ne siamo orgogliosi, il pubblico a queste nuove tecnologie mettendoci la faccia e spesso passando per truffatori (poi andando a vedere ci prendevamo carico addirittura delle garanzie perché in quegli anni molti produttori non sapevano nemmeno cosa fossero). Vendevamo anche per corrispondenza a persone che non avevano un negozio vicino a casa, magari nemmeno nella propria provincia o regione.

Le software house dell’epoca, invece, sono ancora oggi viste come delle imprese visionarie e innovatrici. Ma diciamo la verità: quanti software impresentabili sono stati messi in vendita prendendo in giro il pubblico? Un conto è scrivere codice, un contro è intrattenere le persone.

Nel settore musicale si potevano ascoltare le canzoni alla radio o recarsi in certi negozi per ascoltare i brani prima di acquistare il disco o il cd. Nelle librerie si poteva sfogliare il libro e farsi una idea del suo contenuto. Nel software no! Compravi a scatola chiusa, certamente fidandoti dei commessi o dei bravissimi redattori che scrivevano recensioni sulle riviste, ma scoprendo il suo contenuto solo a casa una volta installato. Oltretutto pensando a prodotti non certo a buon mercato rispetto al mondo musicale e librario, con un pubblico – i ragazzi – con le capacità di spesa spesso limitate.

Quante volte ho visto tornare in negozio clienti delusi per un prodotto che non soddisfava le aspettative e pagato non poco? Non so se queste siano scuse o un dato di fatto: certamente la pirateria ha fatto danni ma in parte è andata anche a colmare dei vuoti che certo non hanno generato i commercianti. Ha fatto magari chiudere realtà, ed è un male, ma forse ha permesso ad una fetta importante di italiani di acquisire esperienze e conoscere tecnologie viste fino a quel momento solo nei film.

Il prodotto in foto non è che una conferma di quello che si diceva prima: certamente i dischetti, i cd-rom e i dvd vergini erano destinati per salvare dati, copiare archivi per questioni legate ai backup e inviare contenuti per corrispondenza visto il limite strutturale delle email dell’epoca. Ma quanti kit copia, cassette audio e dischi vergini abbiamo venduto? Troppi.

Forse un pochino di colpa l’abbiamo un po’ tutti.

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